Intervista a Enrico Morando: “Se l’Europa non cambia e non reagisce, è destinata a scomparire”

L'ex viceministro dell’economia
«L’Unione europea è come stretta in una morsa che ne mette a rischio l’esistenza: da un lato Trump, dall’altro Putin. Per questo deve colmare rapidamente il deficit accumulato su due fronti decisivi: capacità di deterrenza e presenza sulla frontiera dell’innovazione tecnologica»

Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito Democratico e presidente dell’Associazione LibertàEguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.
Da europeista convinto qual è, che riflessioni le provoca una Europa alla mercé di Trump, succube sui dazi, inerte su Gaza, marginale sull’Ucraina? L’Unione europea è come stretta in una morsa che ne mette a rischio l’esistenza: da una parte, la scelta dell’amministrazione Trump di mettere fine alla lunga fase di “egemonia benevola” esercitata dagli Stati Uniti, per sostituirla con “America first”, un insieme di azioni, atteggiamenti e idee che trasformano gli Stati Uniti in una potenza “estrattiva”, che ispira le sue scelte al solo obiettivo di ricavare le utilità che ritiene le servano dal resto del mondo e, in particolare, dai Paesi un tempo alleati. Dall’altra, la Russia di Putin, che ha dichiarato guerra all’Unione Europea – partendo dall’aggressione all’Ucraina – perché considera esiziale il contagio che sul corpo e sulla funzione storica della “grande madre Russia” può esercitare il sistema di valori e principi di cui il “modello europeo” è incarnazione. Putin non vuole (tanto) un pezzo di Donbass. Vuole estirpare la pianta democratica e liberale che ha cominciato a crescere in piazza Maidan. È un mutamento di contesto talmente radicale e repentino da lasciare senza fiato. Le due ganasce della tenaglia che ci stringe sono diverse, ma hanno più di qualcosa in comune: agiscono contemporaneamente e sono mosse da un principio che prevale su tutti gli altri: contano solo i rapporti di forza politico-militari. In questo contesto, la tattica che pretende di affrontare le minacce una per una, man mano che esse prendono forma e determinano emergenze, è per definizione vocata al fallimento: nel nuovo mondo che ci è nato sotto gli occhi, mentre ci si attardava a disquisire sulla debolezza della politica a fronte dello smisurato potere delle grandi multinazionali, l’Europa può mantenersi libera e autonoma, capace di contribuire ad un nuovo ordine di pace, libertà e benessere, solo se colma rapidamente il deficit che ha accumulato su due fronti decisivi: la capacità di deterrenza e la presenza sulla frontiera dell’innovazione tecnologica. E questo deficit è quello che spiega perché – su tutti i fronti di cui alla sua domanda – la voce dell’Europa è così flebile. Certo che è stato un errore cominciare il confronto sui dazi ammettendo uno squilibrio commerciale che non c’è…ma se anche von der Leyen non lo avesse commesso, il confronto non avrebbe mai potuto diventare una vera trattativa, capace di determinare vantaggi reciproci. Anche se l’economia dell’Unione Europea – in termini di Pil e di dimensione dei rispettivi mercati – è paragonabile a quella degli USA, la dipendenza dell’Unione dalla capacità di deterrenza degli Stati Uniti per garantire la sua sicurezza mette gli europei nella materiale impossibilità di far valere le proprie ragioni, anche quando ne hanno da vendere. Specie in presenza, ai confini dell’Unione, di una minaccia di lungo periodo (definizione dell’ultimo vertice NATO) come quella della Russia di Putin. È il grande ritorno della “Politica”. Il fatto che questo ritorno prenda forme che non ci piacciono non ci esime dal considerarlo una realtà. Dunque, delle due, l’una: o si aggrediscono le cause strutturali della debolezza europea, o ci si prepara ad un destino di subalternità a quelli che Giuliano da Empoli chiama “i predatori”.
A proposito di errori di von der Leyen: se fosse stato europarlamentare, avrebbe votato la Commissione di cui è presidente? Se fossi europarlamentare, sarei ovviamente iscritto al gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D), che ha deciso di sostenere von der Leyen. Quindi sì, avrei votato a favore. A proposito di disciplina di gruppo, mi consente una piccola divagazione?
Prego… Vedo che, con una certa frequenza e su temi rilevanti, accade tra gli eletti al Parlamento europeo del mio partito – il Pd – qualcosa di curioso: il gruppo dei S&D, di cui gli eletti italiani del Pd fanno parte, si riunisce e formula una scelta di voto (nell’ultima occasione che ricordi: voto favorevole all’impiego dei missili Taurus da parte dell’esercito ucraino su obiettivi in territorio russo da cui partono gli attacchi alle città ucraine). Segue qualche trafiletto su organi di stampa italiani: la segretaria Schlein non sarebbe d’accordo con la decisione del gruppo S&D… Infine, nel voto, gli eletti Pd si dividono: alcuni, i riformisti, votano secondo la decisione del gruppo S&D. Altri, votano in difformità…
Mi scusi, ma fin qui cosa c’è di curioso? Beh, il fatto curioso è che sia nelle discussioni interne di Partito (quando e se ci sono), sia nelle dichiarazioni ai media (queste, ci sono sempre), quelli in odore di violazione della disciplina interna sarebbero i primi (cioè, quelli che hanno rispettato la indicazione di voto del loro gruppo parlamentare), e non i secondi (quelli che l’hanno contraddetta). Non varrebbe la pena di segnalare questo fatto, se esso non fosse rivelatore di un problema politico piuttosto serio: il Pd, anche sotto la direzione di Schlein, conferma a gran voce – addirittura, come è accaduto nel Parlamento italiano, fino alle lacrime – la sua scelta federalista. Non solo come prospettiva strategica, ma qui ed ora: no al piano di riarmo, troppo “nazionale”. Subito l’esercito europeo. Emerge però una contraddizione grande come una casa: se si vogliono (addirittura “subito“) gli Stati Uniti d’Europa, si devono volere, ancor prima di subito, partiti europei. Con l’ingresso nel PSE (Segretario Renzi), il Pd ha fatto una scelta netta. Sarebbe bene non smentirla. Anche e soprattutto perché, se c’è una possibilità di uscire in positivo dallo stato di impasse in cui noi europei ci troviamo, questa possibilità è strettamente legata alla capacità di iniziativa del centrosinistra europeo.
Bene. Avrebbe votato von der Leyen. Ma oggi, dopo quello che sta accadendo? Ho già detto quali siano i fattori strutturali di debolezza dell’Unione: il ritardo accumulato sulla capacità di deterrenza e la presenza (assenza) sulla frontiera dell’innovazione. Per questo ritardo, è assurdo prendersela con von der Leyen. Se leggo il suo intervento sul Sole24ore di domenica scorsa, trovo invece qualcosa di inaccettabile: se le cose stanno come ho cercato di argomentare, lo sforzo di integrazione e di innovazione dell’Unione necessario per superare rapidamente i due fattori di debolezza, è letteralmente gigantesco. Ma come si può pensare di convincere i cittadini europei a compierlo se li si prende per bambini inconsapevoli, descrivendo l’accordo che abbiamo dovuto subire come “forte, per quanto imperfetto“? Un accordo nel quale l’unico vantaggio per gli europei è che abbiamo evitato – con l’intesa per il 15% – di subire dazi al 30% sulle nostre esportazioni negli Stati Uniti? C’è da stupirsi se i cittadini europei interpretano questa retorica come la migliore prova che, in fondo, non c’è ragione di darsi troppo da fare per cambiare tutto, o quasi, dell’attuale Unione? La prima condizione per farcela è parlare un linguaggio di verità. Von der Leyen non lo fa e commette un errore politico gravissimo.
In Europa, sulle grandi questioni legate alla pace, al lavoro, alla fiscalità condivisa, alla transizione ecologica, esiste un fronte progressista? Certo che esiste. È imperniato sui partiti socialdemocratici, laburisti e democratici, ma va oltre queste forze fondamentali e abbraccia altre formazioni di riformismo europeista. Il punto non è se esista, ma se abbia la cultura politica, il radicamento popolare, la fantasia e la leadership necessari per svolgere la propria funzione in un contesto così radicalmente mutato. Se prevalesse l’idea che il centrosinistra di governo possa svolgere la sua funzione di forza ispirata ai valori di pace, giustizia, libertà e solidarietà e agli interessi di coloro che vivono del loro lavoro, facendo più o meno “quello che ha sempre fatto”, questo insieme di forze politiche diverrebbe uno dei fattori di declino, non uno dei protagonisti del riscatto. Obiettivi come quello di un’autonoma capacità di deterrenza dell’Europa – come pilastro della NATO, se gli Usa arresteranno la deriva di allontanamento che hanno intrapreso, o senza gli USA – o come quello di una consolidata presenza di campioni europei sulla frontiera tecnologica, non sono perseguibili senza un brusco salto di integrazione sul piano della politica estera e di difesa, sul piano del debito comune – che attragga ingenti capitali privati, per finanziare ambiziosi progetti di politica industriale – sul piano del superamento di barriere interne al nostro mercato unico che deprimono il potenziale di crescita ben più di quanto faranno i dazi di Trump. I partiti che compongono la maggioranza europeista – il partito dei popolari e quello dei socialisti – hanno da svolgere un fondamentale ruolo di guida di questo processo. A partire dal convinto sostegno al tentativo che va sotto il nome di “coalizione dei volenterosi”. Dopo la tragedia del tappeto rosso e dei soldati americani inginocchiati che lo srotolano di fronte a Putin, l’iniziativa assunta mesi fa da Macron, Starmer e Merz è stata, con l’attiva presenza al tavolo del confronto tra Trump e Zelensky, una sorta di ancora di salvezza. Questo metodo deve valere anche per gli altri temi dell’agenda europea.
Per venire agli affari interni. Con l’autunno inizia la stagione elettorale. Più che di contenuti, nel centrosinistra si disserta e polemizza sulle candidature. Siamo al suk della politica? In generale, da convinto autonomista, trovo che ci sia un eccessivo intervento “centrale” sulle scelte locali, sia con riferimento alle candidature, sia con riferimento ai programmi. Se il Pd non avesse sacrificato le “sue” primarie per la scelta dei candidati locali sull’altare delle alleanze politiche nazionali, forse avremmo assistito ad un altro film. È un peccato, perché questo offusca l’evidente superiorità del nostro personale di governo locale.
A proposito di alleanze. C’è chi grida alla “grillizzazione” del Pd di Elly Schlein. La “grillizzazione” non la promuovono più, per se stessi, nemmeno i dirigenti locali e nazionali del M5S. Il problema è piuttosto quello di un privilegio soffocante per le alleanze politiche: l’unica cosa che conta è con chi vado, non dove voglio andare. Eppure, l’esperienza dovrebbe suggerire di adottare un altro approccio: se sei il partito maggiore della potenziale coalizione – e il PD lo è, ormai da tempo – indica una strada e promuovi obiettivi chiari, di vasto impatto popolare e corrispondenti ai problemi del momento. Per la leadership, proponi primarie di coalizione. La mediazione con gli alleati potenziali si fa dopo.
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